Prima di fare un balzo in avanti, facciamone uno indietro, per comprendere meglio la destinazione.
Siamo negli anni ‘60, i progettisti tedeschi Eberhard e Wolfgang Schnelle presentano quelli che verranno definiti “uffici paesaggio“(Bürolandschaft), dove spazi aperti, aree lounge e stanze informali mirano a promuovere la comunicazione e la collaborazione.
In apparenza un’idea geniale e rivoluzionaria, ma che ben presto comincia a vacillare. Ricerche successive rivelano infatti che gli uffici “open space” possono essere fonte di maggiore stress e minor soddisfazione: se da un lato promuovono l’interazione tra colleghi, dall’altro compromettono la concentrazione.
La struttura dei fratelli Schnelle perde quindi ben presto terreno, lasciandolo, tra gli anni ’70 e i ’90, a un’impostazione ben diversa. Sono anni di forte gerarchizzazione, con i dipendenti che condividono gli spazi e i dirigenti che occupano uffici indipendenti e di grandi dimensioni. In questo modello circa il 75% degli interni è dedicato alle postazioni scrivania, mentre il restante 25% comprende sale riunioni e altre aree condivise come zone break, bar e relax. È in questi anni, precisamente intorno agli ‘80, che nascono i “cubicoli” tanto rappresentati dalla cinematografia dell’epoca.
I ‘90 sono quelli del World Wide Web, dei primi telefoni cellulari e dei portatili: terreno fertile per lo smart working. Se da una parte le aziende iniziano a vedere i vantaggi del lavoro a distanza – che porta pian piano alla delocalizzazione degli uffici – dall’altra rifiorisce l’interesse per gli spazi openspace, nonostante le preesistenti preoccupazioni sulla privacy in questo tipo di ambienti lavorativi.