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Web designer e web developer: lost in translation
Perché lasciarsi contaminare dalle professioni vicine? I confini tra ruoli si fanno sempre più sfumati, dando vita a strumenti e linguaggi condivisi.
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Perché lasciarsi contaminare dalle professioni vicine? I confini tra ruoli si fanno sempre più sfumati, dando vita a strumenti e linguaggi condivisi.
Tra web designer e web developer esiste una dicotomia che sembra separare due mondi distinti, spesso accusati di non comprendersi a vicenda. Da una parte i grafici, con la loro visione estetica e creativa; dall’altra, i front-end, immersi nei linguaggi di programmazione: una fitta cascata di simboli che ricorda le sequenze di Matrix — con la sola differenza che nessuna pillola rossa permetterà di chiarirne il significato.
Il preconcetto è semplice: è difficile apprezzare ciò che non si comprende. E se un designer non ha familiarità con il codice, o uno sviluppatore non riconosce il valore di un’esperienza utente curata, il prodotto finale rischia di risentirne.
Quindi un buon designer deve saper programmare? E uno sviluppatore può prescindere dal senso estetico?
Non molto tempo fa, web designer e programmatori agivano su binari paralleli, guardandosi da lontano senza incrociarsi, se non di striscio. I primi progettavano interfacce statiche in Photoshop, mentre ai secondi spettava il compito di tradurre le intenzioni in codice, in un processo che prevedeva una comunicazione ridotta all’osso. Questa separazione netta era terreno fertile per fraintendimenti e compromessi al ribasso: dettagli grafici persi nella traduzione, funzionalità complesse semplificate per necessità, e un inevitabile gioco del telefono tra chi immaginava l’esperienza utente e chi la rendeva reale.
La crescente complessità del Web ha reso la comunicazione tra i due un fattore non più irrilevante, imponendo un approccio a cicli iterativi che richiedono una costante collaborazione. Non si tratta più di passarsi il progetto come in una staffetta, ma di costruire insieme un linguaggio comune, fatto di componenti riutilizzabili e documentazione viva.
Oggi come ieri, l’obiettivo rimane condiviso. La nuova sfida è instaurare un dialogo costruttivo e un modus operandi collaborativo durante tutte le fasi di progettazione e sviluppo, per identificare e risolvere insieme le inefficienze.
Si dice che da background diversi e approcci diversi derivino problemi diversi; quando gli strumenti di design si allineano alla logica di sviluppo, anche il gap tra progettazione visiva e realizzazione tecnica si accorcia, riducendo i problemi derivanti dalle differenze. Un’ibridazione che non riguarda solo i tool dedicati al web design, ma anche il front-end nel suo complesso, dove la fusione tra forma e funzionalità diventa sempre più organica.
Il risultato? Un confine labile tra i due ruoli, un linguaggio che comincia a somigliarsi e approcci comuni; con designer che pensano in termini di componenti e sviluppatori che si immergono nella UX.
Se non il più amato, di certo uno dei più conosciuti nel settore del web design, Figma è un tool collaborativo che semplifica e rende fluide le tappe del processo di progettazione. Prototipazione interattiva, gestione delle variabili ed esportazione del codice CSS sono solo alcuni degli esempi della sua capacità di fungere da ponte.
Interessante è l’aderenza di Figma – strumento di web design, per l’appunto – a concetti familiari al mondo dello sviluppo. Quando un web designer utilizza Auto Layout, sta, più o meno consapevolmente, pensando con una mentalità vicina a quella di un dev. Infondo l’Auto Layout non è altro che il fratello fancy di un Diplay flex: sezioni e componenti dinamici si ridimensionano plasmandosi sul contenuto o sul dispostivo su cui verranno visualizzati, proprio come accade con Flexbox in un‘interfaccia codificata.
I design token definiscono e documentano le decisioni progettuali. In termini semplici, non sono altro che variabili: un modo standardizzato per descrivere colori, tipografie, spaziature, bordi, ombre e qualsiasi altra proprietà ricorrente. Il concetto di variabile, appannaggio del coding, si inserisce ora anche nel workflow dei designer.
Proprio come verrebbero utilizzati nei linguaggi di programmazione, è possibile creare e gestire i design token tramite il pannello delle variabili locali di Figma. Esportati in file JSON (JavaScript Object Notation) – un formato dati che rappresenta strutture di informazioni – i token facilitano l’integrazione con i sistemi di sviluppo. Un plugin di Figma in particolare rende più fluido il processo. Questo si occupa di analizzare le variabili locali e generare un file JSON compatibile con Tailwind CSS, un Framework CSS utility-first tra i più comuni.
In sintesi, l’adozione dei design token e l’uso di formati condivisi permettono un lavoro collaborativo, dove strumenti e linguaggio rappresentano i maggiori punti di contatto.
Sul versante opposto, negli ultimi anni abbiamo visto emergere e contaminarsi diversi framework di sviluppo, adattandosi alle evoluzioni del Web. Concetti come responsive design, mobile first e design system sono diventati vocabolario quotidiano dei web developer, trasformandosi in principi guida per la creazione di esperienze digitali coerenti e adattabili.
Quando si parla di framework CSS, protagonista indiscusso è Bootstrap. Con la sua famosa griglia a 12 colonne, ha reso più agile il concetto di layout responsive, consentendo di adattare il design ai dispositivi. Rivoluzionaria è anche la sua attitudine al mobile first, che incoraggia gli sviluppatori a progettare l’interfaccia ragionando in primis sulla versione smartphone.
Emblema del Design System è invece MUI (Material-UI). Basato sul leggendario Material Design di Google, è oggi una delle librerie più usate per costruire interfacce in React. Con i suoi componenti già pronti all’uso, aiuta a creare interfacce dinamiche, fluide e particolarmente intuitive, allineando ancora di più il lavoro di web designer e web developer, per un’esperienza digitale senza intoppi.
Tornando alla domanda iniziale: è davvero necessario che un web designer sappia sviluppare e, viceversa, che uno sviluppatore pensi in termini estetici?
Non è obbligatorio diventare esperti in tutto, e non possiamo prevedere se le figure professionali ibride saranno il futuro. Ma una cosa è certa: l’interazione tra competenze è inevitabile. La vera differenza risiede nell’approccio di ciascuno: lasciarsi influenzare da materie diverse dalla propria e, soprattutto, coltivare la curiosità, apre a nuove prospettive. Comprendere il lavoro di figure professionali complementari non solo arricchisce il punto di vista, ma rende collaboratori migliori e professionisti più completi. E chissà, magari si scoprono passioni inaspettate e nuovi percorsi imprevedibili.