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Autenticità cercasi: la rivoluzione gentile del content marketing
Quando tutti sembrano urlare, vince chi abbassa la voce. È la storia del content marketing, nato da una rivista per agricoltori e oggi diventato una necessità strategica.
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Quando tutti sembrano urlare, vince chi abbassa la voce. È la storia del content marketing, nato da una rivista per agricoltori e oggi diventato una necessità strategica.
Nel 1895, la nota azienda di trattori John Deere pubblica il primo numero di “The Furrow”, il magazine dei contadini americani. Un editoriale in cui si intrecciano storie di vita rurale, consigli pratici per i lavori agricoli e aggiornamenti sulle ultime tecnologie del settore. Distribuito ancora oggi in 12 lingue e circa 40 paesi, fin dagli albori segue una linea precisa: offrire contenuti di valore privi di pubblicità.
È il primo esempio di content marketing, che sfata il tranello di associazione esclusiva con il digitale. Anzi, la sua origine precede di circa un secolo quella del Word Wild Web, che vedrà la luce solo nel 1989. Una strategia che ha anticipato i tempi, offrendo un’alternativa credibile e duratura alla pubblicità tradizionale.
I social media hanno ormai assunto il ruolo d’intrattenimento che un tempo apparteneva alla televisione, replicandone in parte le dinamiche di fruizione. E come accade con le interruzioni pubblicitarie in TV, anche oggi i contenuti promozionali invadenti vengono percepiti dagli utenti come un disturbo. Secondo la Consumer Survey sui Social Trends 2024 di Hootsuite, il 34% degli utenti afferma che una comunicazione troppo aggressiva influisce negativamente sulla percezione dei brand.
Il content marketing si afferma allora come risposta naturale e necessaria: un’alternativa meno invasiva, basata sulla rilevanza.
Prima di essere una leva commerciale, il content marketing è la capacità di distribuire contenuti rilevanti volti alla fidelizzazione e alla generazione di valore per un pubblico elettivo. Ed è qui che, per i content creator, il gioco si fa sfida: come diventare appetibile in un mare pieno di pesci? L’autenticità diventa allora una leva cruciale.
Il 2024 è stato l’anno dei raw content, o contenuti grezzi: video non editati, dietro le quinte, confessionali spontanei. Formati che rinunciano alla patina pubblicitaria per mostrare il volto umano.
In un’epoca in cui l’attenzione è frammentata e la fiducia è merce rara, l’autenticità è quindi la valuta più preziosa. Non si tratta solo di “essere sé stessi”, ma di comunicare in modo coerente, trasparente e umano.
Secondo la Self-Determination Theory di Deci e Ryan, che ragiona sulle motivazioni che spingono l’uomo ad agire, le persone sono naturalmente attratte da ciò che percepiscono come autentico, perché risponde ai bisogni psicologici di autonomia (o libertà di scelta), competenza e relazione. Quando un brand comunica in modo autentico, mette quindi in moto questi meccanismi: non impone, non manipola, ma crea connessione.
Lo conferma anche il concetto di “authenticity cues” studiato nel marketing comportamentale: elementi come imperfezioni visive, tono colloquiale, o storytelling personale aumentano la percezione di sincerità e quindi la fiducia. È il motivo per cui i contenuti “raw”, girati con lo smartphone, senza editing, magari con un errore o una risata fuori copione, funzionano così bene: non sembrano costruiti per vendere, ma per condividere.
Quando un contenuto autentico genera fiducia, il naturale passo successivo è la costruzione di una community solida. Un concetto spesso usato con leggerezza, ma che ha un significato preciso: non conta quanti follower hai, ma quanto realmente si sentono coinvolti. Una community è tale solo quando le persone si riconoscono nel progetto, partecipano attivamente e si sentono parte integrante di una visione condivisa. Questo riflette il significato letterale di “comunità”, dal quale il fratello inglese non prende le distanze.
Chi riesce in questo obiettivo non si limita a parlare a un pubblico, instaura un dialogo, trasformando la comunicazione in una relazione bidirezionale. In questo processo, i micro e nano influencer sono spesso gli attori maggiormente coinvolti. Pur avendo un’audience più contenuta rispetto alle celebrity digitali, l’intimità che si crea li rende maggiormente credibili, soprattutto grazie a un approccio comunicativo che spesso privilegia la trasparenza e l’interazione diretta.
La loro influenza, meno “broadcast” e più “dialogica”, facilita l’emersione di una community autentica, in cui gli utenti si sentono parte di un ecosistema di valori condivisi. Una strategia preziosa per i brand che desiderano non solo amplificare la portata dei loro messaggi, ma soprattutto rafforzare il senso di appartenenza, trasformando semplici follower in ambassador spontanei.
Ma il reale jackpot lo si fa quando gli utenti non si limitano a seguire, ma scelgono di rimanere. L’autenticità non è solo una questione di percezione: è l’attuale porta dell’engagement. Le evidenze raccolte nel report Digital 2024 di We Are Social indicano chiaramente una preferenza crescente per contenuti percepiti come autentici. Piattaforme regine dei contenuti grezzi, come TikTok, che fanno dell’immediatezza e della spontaneità il loro tratto distintivo, registrano il tempo medio di utilizzo più alto in assoluto (oltre 34 ore al mese per utente Android), segno di un coinvolgimento profondo e continuativo. Sono i formati brevi, personali e non patinati a stimolare interazioni più frequenti, commenti e condivisioni, perché attivano una dinamica relazionale più empatica. E i contenuti autentici, proprio perché percepiti come “veri”, sono quelli che più facilmente riescono a superare la soglia dell’indifferenza.
Nel dibattito sulla comunicazione contemporanea, contrapporre strategia e autenticità è un errore concettuale. L’autenticità non esclude la pianificazione; al contrario, richiede una regia consapevole per emergere in modo credibile e coerente. Una strategia di marca efficace non costruisce autenticità, ma la abilita: definisce contesti, linguaggi e touchpoint in cui la voce del creator può manifestarsi senza distorsioni. In questo senso, la strategia non è una gabbia, ma una struttura portante. Ignorare questo equilibrio significa rischiare una comunicazione disallineata: autenticità estemporanea e inefficace da un lato, strategia vuota e autoreferenziale dall’altro.
Parlare di autenticità nel content marketing significa confrontarsi con un bivio: da un lato, l’autenticità come valore integrato, espressione coerente della visione, dei comportamenti e della cultura di un brand; dall’altro, l’autenticità come facciata, una costruzione pensata per piacere, più che per rappresentare davvero.
Un esempio virtuoso è quello di Patagonia, brand di abbigliamento tecnico outdoor, che ha fatto dell’autenticità una pratica costante e integrata nella propria strategia di contenuti. Dalla piattaforma Worn Wear, che incoraggia a riparare i capi anziché comprarne di nuovi, fino ai documentari distribuiti sul proprio canale YouTube dedicati all’attivismo ambientale, ogni contenuto è pensato per creare relazione e consapevolezza. È content marketing nel senso più puro: contenuti di valore, distribuiti nel tempo, che rispecchiano fedelmente l’identità del brand. Quando Patagonia dice:“Don’t Buy This Jacket”, non è una provocazione isolata, ma la sintesi coerente di un intero ecosistema narrativo.
Diverso è il caso della campagna Pepsi x Kendall Jenner del 2017, ritirata poco dopo la sua uscita. Lo spot, diventato virale suo malgrado per le polemiche, mostra la modella americana spogliarsi di un look artefatto per adottare uno stile più casual. Nella scena finale offre una lattina di Pepsi a un poliziotto durante una manifestazione pacifica: un maldestro richiamo al movimento Black Lives Matter.
Il tentativo di posizionarsi su tematiche civili attraverso un gesto tanto semplificato quanto decontestualizzato ha generato una comunicazione percepibile come opportunistica e priva di profondità: nessuna narrazione coerente, nessun contenuto collaterale, nessun reale coinvolgimento con la causa evocata. Solo un messaggio isolato, confezionato con estetica patinata e una retorica spuntata. In sostanza, una pubblicità mascherata da contenuto, priva della continuità, rilevanza e trasparenza che definiscono il content marketing.
La differenza tra i due casi non è solo stilistica, ma sostanziale. Nel primo, l’autenticità è il riflesso di una cultura interna, sostenuta nel tempo. Nel secondo, è una costruzione narrativa che crolla al primo colpo di realtà. È qui che si gioca la partita più complessa del content marketing contemporaneo: trasformare l’autenticità da scelta estetica a pratica strutturale.